Più di così.

Nella vita di ogni insegnante capita di trovarsi di fronte a svolte che non si possono percepire se non come definitive. Clic, fa il cervello. E tu pensi: “Più di così, non si può”.
La sensazione, per capirci, è quella di uno schianto glorioso.

Succede ogni anno, quando vai ad affiggere la tabelle con i risultati della maturità (il primo sguardo solitario ai nomi incorniciati dalle puntine da disegno, o dallo scotch: una specie di ius primae noctis).
Succede quando resti sola sul piazzale delle corriere dopo aver riconsegnato al termine della gita anche l’ultimo pargolo (o pargolessa) indenne, ma con più occhi, alla sua vita.
Succede in qualche cena di Natale, o di compleanno, o finale in cui assaggi la libertà e l’armonia dello stare bene insieme – e ci sguazzi con la consapevolezza di una che, dopo il massacro di mesi di allenamento, si spaparazza dentro una jacuzzi (mai successo, ma io la jacuzzi me la immagino così).

Fare l’insegnante è anche essere esposti, periodicamente, all’esperienza del limite: una cosa strana, carica, insieme, di appagamento e di malinconia. Felicità e allontanamento nello stesso tempo.



Cosa potrai fare di più, la prossima volta (ti dici, del resto), se di più non si può?
Chiederselo vuol dire essere ancora vivi nella propria professione (cosa non scontata), ma anche prendere le misure del proprio essere esposti a una possibile stagnazione (leggi: burnout, orizzonte del).

Il mio ultimo “più di così non si può” è stato più di due anni fa (a milmila chilometri da terra, dentro un Easyjet, dopo un viaggio eccezionale: il serale a Napoli, ma chi l’avrebbe potuto mai pensare?).

Da due anni è fatica.
Da due anni è testa bassa.
Da due anni è tensione.
Da due anni è fare e disfare, e temere di svegliarsi con le zampette affannose per aria come K. quella mattina.
Da due anni prima della gioia viene il dovere, prima del dovere la sicurezza, prima della sicurezza la guerra alla paura, allo sbarellamento, alla totale invasione di tempi e luoghi.
Da due anni è non riconoscere più il proprio mestiere.

Il terrore più grande, dopo questo enorme stravolgimento della scuola, ora l’ho capito, è la paura di non poter sbattere più su un altro “più di così non si può”. Però però. Bisognerebbe avere la forza (anche nel down più down) di ricordare che essere insegnanti è, in fondo, anche un infinito apprendistato ostetrico. Assisti a un sacco di parti.
E le vite, quando nascono nel loro rinnovamento, poi hanno di bello che camminano.
Quando tornano, lo fanno con la gaiezza definitiva di una botta sul coppino: ma cosa credevi? Davvero pensavi che i “più di così non si può” fossero finiti?? Mavvà-à,

Olga è stata mia allieva un pochi di anni fa.
A lei devo due o tre faldoni grossi di risate, archiviate nella memoria della mia prima scuola nel tempo avventuroso della costruzione di un mondo e di tantissime vite (tra cui: la mia).
È lei che mi ha regalato l’incredibile “più di così non si può” di questo settembre.

Voglio cominciare questo anno scolastico così, dentro l’umana sempre possibile rivoluzionaria necessaria ricerca della felicità che ci connota come viventi.
Perché molto è stato perso (più e altro rispetto a quello che dicono le statistiche gli Invalsi le fondazioni e i quaquuaraqquà – Galli Della Loggia, ti aspetto al varco, eh?).
Ma forse, spero, potremo tornare a praticare altra bellezza, altri limiti, altro desiderio.

Suerte!

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