Browsing Category La scuola: dalla sera alla mattina

La scuola: un atto politico.

Quando nella mia classe di adulti lavoratori leggiamo insieme Il treno ha fischiato di Luigi Pirandello e alla fine gli chiedo: che ne pensate, e loro mi rispondono: che anche noi rischiamo di diventare così, e a volte siamo già così, sacripante guai finire così – io sto facendo un atto politico. 
Quando seleziono i titoli degli articoli da spedirgli in mailing list, perché ci pensino su prima di venire in classe (e i titoli sono, per esempio: “Muri del mondo” o “Perché la festa delle donne” o “Volevo solo vivere – Liliana Segre racconta”): io sto facendo un atto politico. 
Quando discutiamo de I fantasmi di Porto Palo; quando ogni singolo respiro si sente grattare nel silenzio tombale dell’aula alla fine del primo capitolo de L’ordine del giorno di Eric Vuillard; quando davanti al grafico dei risultati delle votazioni del ’46, alla voce “Partito dell’uomo qualunque” scoprono l’incredibile risultato del 5,3% dei voti, pari a trenta seggi trenta dentro il primo governo italiano dopo tutto il casino della guerra mondiale – ecco: io-loro stiamo facendo un atto politico. 
Quando nelle classi del mattino abbiamo fatto incontrare ai ragazzi: ispettori postali, profughi, carcerati, lavoratori, addetti alla sicurezza. Ecco: sono stati tutti atti politici.

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Un genio.

“…e messi in un vasel ch’ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio…”
– Non ci credo!
(Prima fila, lato sinistro).
– Ma questo è un genio: non ci credo…
– Rileggo?
– ah, sì! Devo sentirlo di nuovo!
– “…e messi in un vasel ch’ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio…”
– Quando è morto?!
-1321.
– Sì, ma quanti anni?
(Qualcuno fa la conta: cinquant’ e…)
– Non ci credo… Si sente il vento.
– Sì…?
– le “v”: si sente il vento. E il mare!! s…s…s…
Ride.
– Ma non poteva aspettarmi, uno così, che me lo sposavo subito? un genio… il mare…

Lei: ha vent’anni.
(La scuola, la sera)

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La verità, vi prego, sulla verità!

È talmente fondamentale, che la notizia – già in sordina al mattino – ha continuato a scivolare giù giù, e la sera era praticamente scomparsa dalle testate on line.
Dice Valeria Fedeli, Ministro della Pubblica Istruzione, che siamo in un guaio: i ragazzi non riconoscono le fake.

Dice che: sì, è un problema.
Dice che: sì, la soluzione c’è.
Dice questo, dice, che la questione sarà:
«La certificazione del vero non solo delle informazioni ma anche dei contenuti che si trovano nel digitale»

No, non sono arrabbiata.
È che resisterò. Tutto qui.

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Addio scuola.

In terza elementare, per la prima volta, ho imparato cosa vuol dire la differenza. La maestra, appena cambiata, faceva parte di una vecchia guardia che al tempo sembrava in via d’estinzione: donne sempre molto anellate, sempre molto abbronzate, profumate e laccate, sempre e solo completini sartoriali acquistati nelle due boutique del centro storico, De Castello e Tonegutti.
Una tipologia facilmente riscontrabile nelle piccole province, dove il microcosmo amplifica sempre il peso del ruolo.

La maestra sapeva bene chi era figlio di chi, e chi no. Mica che servissero i megafoni. Era da sottili distinzioni (il posto del banco, una frase chiusa più e meno bruscamente, chi chiamare a leggere a voce alta, di chi elogiare il tema… ) che apprendemmo, a nostre spese e all’inizio a nostra insaputa, che esisteva una differenza tra la figlia del capo dei vigili e la figlia di una donna delle pulizie.

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della Maturità, della vulnerabilità.

Com’ero io, il pomeriggio prima della Maturità?
Vulnerabile, come tutti.
A ripassare con un’ansia solida, in un tempo solido, materie che andavano inchiodate nella memoria (se poi non mi viene niente? se mi dimentico tutto?) prima che se ne scappassero via. E allora bisognava mettere paletti, crocifiggerle dentro la testa in formule, epigrammi, distillati.
(Montale: oscuro simbolismo analogia cocci aguzzi di bottiglia muro mare. Varco)
Io stavo seduta dietro la porta a vetri della Biblioteca Civica. C’era sempre il quadro angosciante di Masi Simonetti (che non aiutava). C’era la sensazione di una certa – pura – solitudine (troppo simbolismo, troppe ellissi, troppo ascolto di “La morte e la fanciulla”).
Il mio, di varco, era quel vetro. Lo stesso a cui penso, oggi.

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ed ora tocca a voi…

ed ora tocca a voi, ragazzi. Il momento é arrivato, per me, di lasciarvi andare.
Domani mattina vi vedró in fila di nuovo: sedervi, stirare i fogli, leggere i titoli, guardare per aria, piegarvi dentro ai vostri pensieri, inseguendo le parole (che verranno, ne sono sicura: e saranno giuste, semplicemente, per ciascuno di voi). Non abbiate paura: ce la farete.
Saró seduta davanti a voi, ma mentalmente saró al fianco di ognuno di voi: e avró davanti ventiquattro giovani eroi cretesi pronti a saltare il toro. Un rito é un rito, lo sapete bene: e questo é il vostro passaggio.

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la formazione dell’insegnante di lettere

Si chiamava Giuseppe Martini, e a usare il tempo passato faccio fatica, perché c’è ancora una parte di me che non vuole credere che sia successo quello che, poi, è successo.
La prima volta, era il 2002: rosso, di capelli e di faccia, gli occhiali montatura di metallo. Ho un ricordo di sole, fuori dalle finestre grandi della scuola: come sempre, in settembre. Noi, tutti, nell’aula. Mattina, pomeriggio; e poi, ancora, mattina, e pomeriggio. Venti solide ore.
E fuori il sole, a scaldare che faceva venire le malinconie da autunno in montagna – ecco, avevo pensato appena varcata la porta che, di lì a una decina di giorni, avrei infilato quotidianamente fino al luglio successivo, questo è un giorno da scappare in laguna, le ombre già si allungano e tu sei qui; altro che corso di formazione. La vergogna del pensiero era stata subito pari al senso di ribellione: mai stata brava a fare Lucignolo…
A un certo punto della lezione, lui si toglieva il maglione: arrotolava le maniche della camicia, spingeva gli occhiali indietro sul naso, con la nocca dell’indice, e, intanto, si stropicciava la bocca e il mento con la sinistra. Me lo ricordo così: fermo, in quella concentrazione.
Eravamo: impegnativi. In realtà, esistono pochi uditori più impegnativi di una classe di insegnanti.
E noi eravamo la periferia della periferia dell’insegnamento: eravamo il Ctp, Centro Territoriale Permanente per la formazione e l’educazione in età adulta. Una cosa nata, ministerialmente, cinque anni prima, sulla scorta di cinquant’anni di scuola e corsi per lavoratori. Il carcere di giorno, di sera l’aula multiplex: multilingua, multietà, multietnia, multiscolarizzazione, multimotivazione; multi-tutto.
Com’è che ero finita lì?
Lo avevo scelto. Ovvio.

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