Non basta avere gambe per fare lo stesso cammino.

Cara M., che la scuola sia un atto contro natura non è un mistero: a nessuno, spontaneamente, piace fare fatica. Tanto meno una fatica di cervello.



E con questo implicito perenne ogni insegnante si deve confrontare, per cercare di restituire sempre a chi apprende il senso allo sforzo che sta sostenendo (rendendolo magari piacevole, e – addirittura – divertente): solo così si può sperare di dare gambe alla maratona dell’apprendimento.
Tuttavia ci sono cose che, se non “passano”, non si possono insegnare.

Una è l’amore per ciò che si fa (poiché apprendere non è solo dovere; ed è ben triste cosa una scuola fatta solo di doveri). E questo è una benzina potentissima, perché sempre il desiderio innesca la volontà, determina scelte, accende aspirazioni, tiene vivo l’amor proprio, si traduce in impegno, si ripaga con la moneta della soddisfazione.

Un’altra è la consapevolezza dell’appartenenza. Ognuno di noi appartiene all’altro: è in classe che il nostro agire diventa sociale, che scegliamo chi essere e come.
Capire che uno non è mai uno e basta, ma sempre parte di tutto (anche nel sottrarsi, nel non decidere) è la lezione della civiltà, il discrimine tra scegliere la responsabilità o demandare alla colpa.

Da questo discende la terza questione, che è in fondo una questione di stile sociale: perché dire cooperazione o competizione è come stare agli estremi opposti dello stesso sistema. Sarà, questa, la mappa del tuo limite, e della tua impotenza.

Puoi insegnare ad avere gambe.
Ma il loro cammino non sarà mai il tuo.

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