Gli oculisti.
I fisioterapisti.
Gli osteopati.
I massoterapisti, naturalmente.
A prendersi cura dei corpi – quelli inchiodati, da oltre quaranta giorni, a scrivanie, tavoli, schermi, libri – saranno loro.
Solo a fare una proiezione in avanti di un paio di anni, mi immagino una prima campanella suonare, da Sciacca a Bolzano in un luminoso settembre, nel preciso momento in cui, davanti alle porte di tutte le aule di tutti i piani di tutti gli istituti, un gesto identico, contemporaneo, verrà replicato dalla totalità della classe docente italiana: inforcare gli occhiali – e massaggiarsi con circospezione i lombari.
Quello che resterà della scuola online sarà, per prima cosa, questo.
Certo, sarà il meno aggiustare i corpi.
Altro paio di maniche capire come le teste assorbiranno – stiano assorbendo, se assorbono – il contraccolpo della sovraesposizione di queste settimane.
Di suo, già ben prima del pandemonio il datore di lavoro è sempre stato piuttosto abbottonato sullo stato di salute dei suoi dipendenti, preferendo volentieri sfumare, rimuovere proprio l’argomento dall’agenda delle riflessioni di sistema.
Dal secretare i dati del burnout, all’evitare che la parola “usurante” comparisse tra le malattie associate alla professione, lo Stato italiano non ha certo brillato, in questi ultimi vent’anni e più, quanto a fiducia, investimenti e valorizzazione nei confronti dei suoi insegnanti. Lì dove si poteva tagliare, ha sfrondato come se non ci fosse un domani (e in effetti, oggi, di un domani possibile si fatica a parlare: che fare adesso che il mondo si è infine reso conto che, contrariamente a qualsiasi logica, non solo sanitaria, le classi fanno fino a 29 alunni? dove metterli? come pensare a una ripresa?).
Nel frattempo, assecondando più e meno dichiaratamente il monopolio economico del pensiero, la centralità della scuola non è più stata un obiettivo in grado di sopravvivere oltre lo slogan di qualche (qualche) parte politica.
“In una improbabile storia letteraria dei mestieri disgraziati la professione di insegnante acquisterebbe, di slancio, invidiabile posizione. Molto poche sono le opere narrative dell’Italia unita in cui maestri, professori, dirigenti scolastici, direttori didattici, responsabili di convitti ed educandati non esibiscano la patente di imbecillità. Ha, la cretineria del docente, una qualità: non è mai asfittica o monocorde, bensì articolata, capace di adattarsi o attaccarsi a rami diversi”.
Era il 2000 quando Vincenzo Campo introduceva così un curioso volume (Il compito di latino, pubblicato da Sellerio) che contiene alcuni racconti di inquietante – e illuminante – attualità.
E, se quello era il 2000, immaginarsi cosa si è poi sedimentato sopra questo immaginario avariato: la disaffezione è stata la cifra entro la quale si sono inscritti inclinazioni, comportamenti, scelte di chi sulla scuola ha avuto per più di due decenni responsabilità decisionali, con l’ovvia conseguenza di bandire ogni stima, ridimensionare ruoli, legittimare in modo più e meno scoperto antipatia, paternalistico compatimento, quando non disprezzo.
Il resto l’hanno fatto i meccanismi competitivi incistati nel modello della scuola-azienda.
A dare una gran mano sono stati anche gli insegnanti, la cui voce, divisa in particelle poco più che elementari, non è riuscita a trovare fino ad ora un modo per arrivare alle orecchie di quel mondo di cui costruisce il domani, e del quale fa parte anche oggi.
È in questo scenario – morale, politico, di percezione – che è scoppiata la bomba del coronavirus.
Tenere da conto il contesto è necessario per capire che tipo di rivoluzione copernicana sia avvenuto dentro quelle tre parole che hanno rifondato la realtà quotidiana di milioni di famiglie italiane: la scuola on line.
Il cui merito indiscutibile è uno: aver scardinato il meccanismo di comodo del pregiudizio, sedimentato e alimentato per anni, restituendo alla realtà quello che la scuola è, ancora e nonostante: un portentoso agente di cambiamento sociale.
Il tempo della valutazione generale deve ancora aspettare.
Ma è invece proprio in questo momento, esposti all’emergenza, dentro le giornate della sospensione, che è possibile cominciare a considerare non il bene e il male, categorie non pertinenti nel ragionamento della politica sociale, legate come sono all’idea della colpa; ma invece – e questo sì – le cause e gli effetti, la catena consequenziale delle scelte e delle responsabilità (individuali, e collettive): per ponderare su quello che è successo oggi. E, possibilmente, migliorare il domani.
Una sorta di scala di riflessione: in sette gradini, per il momento.
Perché sette è un bel numero, pieno di suoi significati.
E perché sette dà l’idea di una possibile, ulteriore progressione del ragionamento – come anticipa la riflessione finale
Centralità.
A cosa serve la scuola? A dare struttura. A farsi struttura: nelle teste, nel tempo, nella vita degli studenti. Lo ha continuato a fare anche e nonostante vent’anni di ridimensionamento della narrazione politica.
Lo fa anche ora, nel pandemonio generale. Costringe il cervello a stare su altro, spinge le teste a ragionare (se continuiamo a ragionare, continuiamo a portare avanti il tempo), riempie i momenti di vuoto, dà noia perché rimanda all’idea della necessità (capire, seguire, apprendere, annotare, riassumere, connettere).
La scuola on-line questo, ha permesso: ha salvaguardato in forma anomala un lembo di normalità.
Ma ha anche restituito alle famiglie, in presa diretta, ciò che è.
La montagna che si scala, ogni giorno, tutti i giorni, in cordata doppia: con chi tira e chi viene trascinato, chi finisce le forze e chi ne mette anche per gli altri, chi si riprende e chi si lascia penzolare nel vuoto.
È possibile che, quando tutto questo sarà passato, e all’ora di pranzo madri figli padri figlie si incroceranno in tavola, alla classica domanda Cos’hai fatto oggi a scuola?, la altrettanto classica risposta Niente cederà il passo a un’altra, più realistica: Tutto.
Si è sempre saputo. Lo abbiamo dimenticato per vent’anni, ma forse adesso ci riprendiamo…
Svantaggio.
La scuola on-line non colma gli svantaggi sociali. Anzi. Li rivela, li ha rivelati ancora di più.
Possiamo riempirci la bocca fin che vogliamo di piattaforme moodle, google suites e registri elettronici: l’uguaglianza sociale, per cui la scuola in presenza ha fatto e fa (pur nei limiti, pur con mezzi carenti, pur potendo e dovendo, se potesse, fare di più), è ancora un obiettivo da raggiungere. Benché nelle alte sfere ancora si usi prudenza (“Non siamo sicuri di aver raggiunto tutti” è una pietosa litote per edulcorare quello che qualsiasi insegnante sa: siamo proprio sicuri, invece, di non aver raggiunto tutti. E siamo anche certi che la dispersione delle fasce deboli sarà un dato con cui bisognerà fare i conti, prossimamente). Un merito dell’emergenza è stato quello di smantellare il pregiudizio sulla generazione digitale: saper spippolare su un cellulare non significa saper usare un computer, non vuol dire usare mail, né sapersi destreggiare con le piattaforme.
C’è chi il computer proprio non ce l’ha, chi deve condividere la banda con fratelli e sorelle, chi non ha più giga, chi non è mai stato raggiunto da una connessione veloce.
E, soprattutto, ci sono molti – tanti – che il loro progresso mentale se lo stavano costruendo da sé, dentro famiglie non in grado di prestare aiuto né sostegno né comprensione.
Se la scuola non pesterà i piedi su questo aspetto, se non si faranno investimenti su figure di sistema in grado di sostenere l’azione degli insegnanti a livello psicologico, sociale, umano (perché, sia chiaro: dare un computer a tutti, per quanto sia qualcosa, non significa risolvere la questione) ci ritroveremo con una società di disuguali. E, prima o poi, pagheremo tutti.
Mancanza.
Si capisce ciò che si aveva quando questo non c’è più.
Probabilmente nulla più dell’interruzione di queste settimane ha insegnato a tutti ciò che ci manca.
Per gli studenti, questo significa un aspetto fondamentale: essere in un tessuto sociale.
La scuola è, di fatto, il luogo dove i legami nascono, si moltiplicano, si sciolgono, sono pari e impari.
Ciò che manca, è la possibilità di abbondare: nelle proprie reazioni, nella sfida, nell’apprezzamento e nell’essere apprezzati.
La scuola on-line ha dato asilo ai legami, ma è qualcosa di molto diverso.
È, fondamentalmente, un ambiente monodirezionale, profondamente gerarchico.
L’insegnante dà e toglie la parola.
Lo scambio è regolato e sintetizzato dalla necessità.
Spenti i microfoni, nessun brusio.
La misura regola le lezioni (perché il tempo, e la sua sostenibilità, sono qualcosa di molto diverso passati su uno schermo rispetto all’essere insieme in un luogo), la disciplina ha assunto connotati completamente differenti: quando gli studenti spengono la telecamera, o non si connettono, o abbandonano il gruppo whapp, o non rispondono alle mail, tolgono, semplicemente, ogni possibilità di essere raggiunti.
E l’avvenuta perdita del confronto, la sua necessità al meccanismo della crescita sono aspetti che la scuola on-line ha rivelato con brutalità.
Che ci sia stata una acquisizione di consapevolezza in molti, anche insospettabili, della necessità di colmare la mancanza della scuola, questo pure è vero: studenti che spediscono temi, esercizi, elaborati senza essere sollecitati non sono casi rari.
È possibile che la prossima lezione sarà per molti la più desiderata della storia.
È possibile che la prossima lezione, per altri, non ci sarà.
Salto (e conseguenze).
Fino a due mesi fa il tecnopensiero arrivava alla frontiera del registro elettronico (sul quale sarebbe interessante fare un ragionamento).
Adesso abbiamo: whapp, mailing list, zoom, google suite, belive, meet, canali youtube, skype, drive, hangouts.
Sì, è vero: non tutte le scuole e non tutti gli insegnanti hanno reagito nello stesso momento.
Ora, però, dovrebbe essere chiaro che quello che lo Stato non ha fatto, in termini di investimenti, in questi anni, è stato assorbito dai singoli e dagli istituti in una reazione ovviamente non coordinata, ma che c’è stata. La scuola italiana, in tempi record, si è inventata la scuola on-line, un suo avatar perfettibile.
Con quello che aveva (non tutti gli insegnanti hanno computer e linee potenti), con quello che conosceva (non tutti gli insegnanti sono esperti informatici), così come era (e torniamo sulla questione iniziale, quella della salute; poiché, per riflesso incondizionato, le dita dei giudicanti sono sempre pronte ad alzarsi, qualcuno si è chiesto: quelli che sono scomparsi, come stanno, ora? che fanno? sono proprio tutti dei paradigmatici lavativi?).
Oggi possiamo dirlo: perché non c’è una piattaforma facile, agile, semplice, uguale per tutti, in grado di capirsi e far capire?
Perché non ci si è preoccupati di investire sulle connessioni per rendere accessibile internet a tutti?
Ora che la stragrande maggioranza degli insegnanti si è reinventata un modo per continuare ad essere nella vita dei suoi studenti, ci si accorge che per oltre quaranta giorni tutte le energie sono state sulla scuola per la scuola (burocrazia: ciao).
Ma, a questo punto, il vulnus sta proprio in questo aspetto: perché gli strumenti sono esattamente quello che dicono di essere. Strumenti. Non sostituiscono, non fanno per altri. Vanno usati per ciò che sono.
Una volta raggiunti gli studenti: quale è il linguaggio? quale didattica? come far procedere l’apprendimento – ammesso che questo sia possibile?
È qui che la scuola on-line mostra il fianco, ed è un versante nel quale si sta contemporaneamente sperimentando moltissimo.
Certo, l’altra questione di partenza (il fatto che i docenti, storicamente, agiscano da soli) emerge pure in questo momento: lì dove il carico addossato agli studenti diventa sproporzionato, non commisurato al senso del tempo di questi giorni, è evidente che apprendere a lavorare in gruppo sarebbe una delle competenze necessarie da mettere in agenda per il futuro della classe insegnante.
E lì dove l’ansia valutativa (che era stata messa a tacere in queste settimane) ora ricomincia ad emergere, dai messaggi del Ministro in poi è chiaro che il rischio competitivo non se n’è mai andato: sta solo nascosto sotto il tappeto.
Eppure varrebbe la pena chiedersi, proprio adesso: cosa si vuole, cosa si può valutare davvero di questo momento – al netto di aberrazioni come interrogazioni bendate, delle equazioni fatte risolvere dai cellulari, degli infiniti modi di copiare escogitati dagli studenti, delle montagne di tutorial che gli insegnanti si stanno sorbellando per sgamare strategie manueline di copia & incolla.
Bisogno.
Quale è il bisogno più grande manifestato da studenti, insegnanti, famiglie?
La necessità della relazione.
Di una relazione: umana.
Più di mille compiti assegnati, ha potuto il buongiorno, come state?, l’interesse, la vicinanza adulta, la condivisione di dubbi e paure. E anche la grandissima risorsa creativa di tanti docenti che hanno trovato un modo diverso per fare ragionare, per fare esistere, per fare continuare a desiderare i loro studenti.
D’altro canto, è lo stesso bisogno su cui gli insegnanti – la stragrande maggioranza dei quali ha scelto il proprio mestiere proprio perché fondato sul passaggio dei saperi – si è interrogato: ovvero, che fare di una professione di relazione lì dove la relazione è stata interrotta da necessità di sopravvivenza?
Quello che è, credo, il più grande merito della scuola on-line è il fatto di avere permesso di mantenere in piedi la relazione.
Con limiti, certo. Dovuti al mezzo che è un mezzo.
Ma la scuola on-line ha fornito un ponte tra generazioni: è una campata sopra la quale gli sguardi continuano a incontrarsi, e spesso si sono visti in modo diverso rispetto a cristallizzazioni precedenti.
Domande scomode.
Ci sono almeno tre ordini di domande che la scuola on-line pone.
1) La mancanza di democrazia reale. Non è un terreno di confronto quello in cui le voci vengono messe in silenzio da chi lo può decidere. In cui chi non può accedere a risorse come gli altri resta inevitabilmente indietro. In cui chi ha problemi e fragilità diventa l’oltre dell’ultima fila, sfumando in fondo. Bidimensionale e monodirezionale è la relazione che l’on-line permette. È più di nulla, ma è molto meno della relazione in presenza.
2) Una improvvisa massa di informazioni è ora a disposizione della rete. Domande e risposte possono diventare fonte di profilazione. Siamo protetti da questo? Ne siamo consapevoli?
3) Libertà di insegnamento significa che lo stile, il modo di ogni insegnante è suo proprio nella forma in cui passa la propria materia ad altri; cioè che non è riproducibile né da altri utilizzabile; nell’emergenza moltissimi materiali sono diventati condivisibili. Siamo sicuri che non potrà, questa forma nata nell’eccezione, dare lo spunto per creare alternative all’insegnamento in presenza anche quando (mettiamo: in caso di sciopero) l’insegnante decida di non esserci?
Rilettura. Una proposta di riflessione.
Decine di migliaia di ore di corsi, sversamenti nei vocabolari delle metodologie di parole inglesi presentate come imprescindibili ma di durabilità stagionale, vagheggiamenti tecnocratici.
Poi arriva il pandemonio, e la corsa alla piattaforma facile e gratuita diventa LA necessità.
E decrittati i tutorial per accedere e imparare in tempi record questo e quel supporto, si accende la telecamera e ci si rende conto che insegnare in rete è una cosa completamente diversa da quello che si era ipotizzato.
Lì dove la sovrabbondanza di strutture tecniche rende tutto faticoso, si perde.
Lì dove il messaggio passa, lo fa attraverso movimenti del pensiero che passano ancora attraverso la percezione, l’emozione, la riflessione su di sé.
Forse, tutta l’attenzione messa sull’on-line, a questo punto, potrebbe necessitare di una rilettura.
In fondo, per fare un buona fotografia, non è il tipo di obbiettivo che si usa, o la sua marca, o la sua tecnologia, a garantire in sé e per sé l’efficacia dell’immagine: se dietro a quell’obbiettivo non c’è un occhio che sappia dove guardare, e cosa, si rischia un imponderabile e perfettamente tecnologico naufragio.
Questo articolo è stato scritto per Cultweek, qui.