Quando Juan Rulfo acquistò per mille pesos la Remington Rand sulla quale avrebbe scritto il romanzo della sua vita era già stato orfano di un padre ucciso a fucilate, nipote di un nonno di otto dita (i pollici gli erano rimasti attaccati alle corde dalle quali i banditi lo avevano lasciato penzolare), bambino depresso in un orfanotrofio dalla disciplina ossessiva.
A trent’anni suonati aveva alle spalle una intima e solida confidenza con la precarietà della vita: l’infanzia se l’era giocata tra la polvere da sparo del Messico in rivolta (Cristeros contro esercito federale) e il fumo dei ceri nelle infinite veglie funebri per morti sparati, morti annegati, morti e basta che andavano costituendo la sua personale costellazione famigliare.
Da quattro anni era il più serio rappresentante di pneumatici della terra quando, nel 1952, vinse una borsa di studio della fondazione Rockefeller: una fortuna per la letteratura (per il mercato dei copertoni non saprei), perché quel mondo di allucinazione, ombre e povertà che gli covava dentro, ed eruttava sporadicamente in racconti che pubblicava qua e là, si incanalò in una prima raccolta, “El Llano en llamas”, La pianura in fiamme, che gli portò notorietà e successo, spedendolo tra le braccia del Centro messicano degli scrittori.
Era il 1953. Juan Rulfo, nato a Jalisco, famiglia benestante frantumata dalle visite interessate di Sorella Morte, fatta palestra di abbandoni e letteratura, mette mano prima di tutto alla struttura di quello che sarà insieme ossessione, passione consacrazione e maledizione della sua carriera: la storia della ricerca di un padre impossibile – Pedro Páramo.
Deviazioni.
Viviamo distruggendo il nostro mondo ogni momento, se così si può dire.
Tre titoli prima che l’ombra terribile del suo protagonista si fagocitasse tutto, il romanzo breve di Juan Rulfo si era chiamato Una stella vicino alla luna, cambiato poi in I deserti della terra, per approdare all’efficace I mormorii. Dopo due anni di ripensamenti, l’autore ne è infine contento: la sua è in effetti una storia in cui le voci fanno e disfano personaggi e relazioni, evocano paesaggi e danno sostanza alla catena di perdizioni che vi sono ambientate, compresa quella del narratore stesso (“Mi hanno ucciso i mormorii”, dirà a un certo punto). In più, l’originale spagnolo (“Los murmullos”), lemma che rotola i suoni scuri delle vocali tra allitterazioni, liquide e sibilanti, rende bene l’uso fonetico e incantatorio che Rulfo avrebbe esercitato nella sua prosa.
Ma.
Ma il titolo somiglia troppo a quello di un’altra opera in uscita nello stesso periodo, dice l’editore. E discuti che ti discuti, infine, il 19 marzo 1955, il romanzo esce pubblicato dal Fondo de la Cultura Económica con il titolo di Pedro Páramo: talmente potente è, il personaggio creato da Rulfo, che alla fine si prende tutto lo spazio; forse anche perché, nella nebulosa del testo, l’unico punto fermo, tirannico, fobico e deprivato d’amore, resta sempre lui.
Si sa che le vite dei libri (e degli scrittori) sono spesso per niente lineari; però quella di questo romanzo – che già in tempo di gestazione cambia pelle tre volte – ha qualcosa di paradigmatico nella sua storia e, in fondo, anche di consolatorio: è sopravvissuto a tutto (cattive traduzioni, mancate distribuzioni, sfaldamenti della critica, perfino al silenzio del suo autore), ed ha resistito nonostante sia, in termini di struttura trama stile e temi, qualcosa di molto speciale, molto coraggioso, molto poco rubricabile nelle categorie della narrazione, molto spiazzante.
Ricorda Rulfo, a trent’anni dall’uscita:
«Ero confuso e indeciso. Nella sessione del Centro messicano degli scrittori Areola, Chumancero e la signora Shedd y Xiran mi dicevano: “Va molto bene”. Miguel Guardia trovava che nel manoscritto ci fosse solo un cumulo di scene scollegate. Ricardo Garibay, sempre veemente, colpiva il tavolo per sottolineare che il mio libro era una porcheria.
Erano d’accordo con lui alcuni giovani scrittori invitati alle nostre riunioni. Per esempio il poeta guatemalteco Otto Raúl Gonzáles mi consigliò di leggere delle storie prima di sedermi a scriverne una. Leggere storie è quello che io avevo fatto per tutta la mia vita.
Altri trovavano le mie pagine “molto faulkneriane”; però in quel momento io non avevo letto Faulkner».
Dire che la critica si spezzò di fronte all’uscita di Pedro Páramo è essere gentili e mentitori. In breve, Rulfo si trovò fatto a brandelli e tirato per la giacchetta: il libro o entusiasmava, o scioccava (per non dire schifava). E questo accadeva anche tra chi gli era stato più vicino nella stesura.
«Nella rivista dell’Università, Alì Chumancero commentò che a Pedro Páramo mancava un nucleo al quale concorressero tutte le scene. – ricorda sempre lo scrittore in una intervista del 1985 – Pensai che era alquanto ingiusto, dal momento che la prima cosa a cui lavorai fu la struttura, e lo dissi al mio caro amico Alì: “Sei il responsabile della produzione del Fondo e scrivi che il libro non è buono”. Alì mi rispose: “Non preoccuparti, in ogni modo non si venderà”. E così fu: il primo migliaio di copie faticò quattro anni ad essere venduto. Il resto si esaurì regalandolo a quelli che me lo chiedevano”.
Sembrerebbe quasi che il suo destino fosse già segnato, invece Pedro Páramo non ne vuole proprio sapere di fracassarsi nel nulla: i lettori, lungi dal diminuire, seguitano a passarsi parola, anche fuori dal Messico, e il libro continua a muovere pensieri.
C’è chi si è preso, poi, la briga di contare quanto sia scaturito in saggi, articoli, recensioni e commenti dalla produzione di Juan Rulfo: a fronte delle sue 300 pagine, equamente spartite tra la raccolta di racconti e il suo romanzo atipico, si parla di una produzione di oltre novemila cartelle. Qualcosa che lui stesso, con il consueto aplomb, spiega di non riuscire a spiegarsi: «Non immaginavo che trenta anni dopo il prodotto delle mie ossessioni sarebbe stato letto anche in turco, in greco, in cinese e in ucraino. Il merito non è mio. Quando scrissi Pedro Páramo pensai solo ad uscire da una grande ansia. Perché a scrivere si soffre sul serio».
Fu, insomma, come quando, alla prima interpretazione, un attore azzecca la parte della sua vita: subito, dal nulla. Nel giro di dieci anni, il Fondo che tanto aveva faticato a vendere la prima edizione si trova a doverne stampare altre sei. Tutto fa ormai pensare che la letteratura messicana avesse trovato un nuovo cantore contemporaneo. Invece Juan Rulfo abbozza. Cincischia. Ogni tanto dice una mezza verità, o una bugia intera. A chi gli chiede a quando la prossima opera, vagheggia che ci sta lavorando.
Ma, in definitiva, non riesce più a raggiungere quello stato di grazia a cui Pedro Páramo lo aveva accompagnato. Dopo la morte, avvenuta nel 1986 a Città del Messico, sono stati pubblicati i frammenti di un nuovo romanzo, mai compiuto (“Aire de las collinas”) e alcuni racconti brevi inediti (“Los cuadernos”, 1995).
Per tutto il resto della sua vita, si occupa invece di studi antropologici, spostando la propria attenzione sul cinema (una serie di idee di soggetti viene riunita nella raccolta Il gallo d’oro, Ed. Riuniti, 1982) e sulla fotografia; ed è proprio qui che il suo sguardo, con ottimi risultati, torna a cercare gli stessi paesaggi dei suoi libri. Ritroviamo in quello che il suo obbiettivo inquadra e ferma esattamente quello che Rulfo ha insegnato ad ascoltare nelle sue righe: un Sud solitario e misterioso, ombre immobili, pianure svuotate, uomini che aspettano nel nulla, danze che riportano alle origini del tempo, in totale sincronia con quell’idea di mondo che prendeva forma allora negli scrittori del nuovo corso latino americano – metafisica non evasiva, ma pervasiva della vita; di tutte le vite.
L’ennesima e da certi punti di vista necessaria deviazione.
Una struttura fantasma
Dicono che i pensieri dei sogni vanno dritti in cielo
Prima di inventare il corridoio, gli architetti dei grandi palazzi scelsero l’accumulo. Nella loro testa non c’era l’esibizione della grandezza, ma la possibilità della migliore condizione abitabile per una comunità (tutta la comunità): sale di rappresentanza, magazzini, luoghi di culto, abitazioni, laboratori artigiani vivono in contiguità, uno dentro l’altro, uno insieme all’altro. Per questo, a guardarla oggi, la pianta del palazzo di Cnosso sembra un delirio: ambienti si aggiungono ad ambienti in totale libertà, senza un apparente schema geometrico prefissato, seguendo le esigenze nel momento in cui nascono. E’ qui che ha origine l’idea del labirinto.
L’unica gerarchia dispositiva riguarda la luce: al signore vanno le stanze a Oriente, quelle nelle quali la luce è migliore e più duratura; in qualche modo, il signore deve stare più in luce, perché è la luce, e la concede. All’opposto, man mano che si scende nella scala sociale, gli ambienti diventano meno illuminati e meno caratterizzati, fino agli antri scuri dei magazzini, lì dove indistintamente lavorano i più poveri.
Pedro Páramo funziona più o meno alla stessa maniera: tutta la comunità del piccolo paese di Comala (dal prete al bandito, dalla donna di tutti al notaio, dal contadino al figlio del padrone) sta racchiusa, contigua, nella medesima narrazione che procede per scene, una infilata all’altra.
Il passato e il presente, i personaggi e le loro gerarchie, i morti prima e i morti dopo esistono tutti contemporaneamente in una medesima sospensione cronologica e relazionale. In più, tra una scena e l’altra non c’è alcun legame evidente (nessun corridoio, appunto): Juan Rulfo giustappone i suoi frammenti, che si capisce che sono frammenti solo perché, ogni tanto e, naturalmente, con lunghezze differenti, compare una riga bianca. Se l’abbia messa l’autore, o l’editore, uno comincia a chiederselo anche senza fare il confronto tra edizione ed edizione: su quanti siano questi frammenti già alcune fonti dicono 69, altre 70, altre ancora “una settantina”; poi sorge il dubbio se alcune micro scene di poche righe – alcune delle quali in relazione esplicita con ciò che le precede, altre no – facciano o meno storia a sé: a metterci i numeri a matita si sfora subito. Niente da fare: provare a contarli equivale ad entrare nel labirinto, e, ovviamente, si capisce che la matematica non è un buon metro, in questo territorio.
C’era già stata l’Antologia di Spoon River a raccontare, in epitaffi, il sistema sociale di un paese. Ma la principale differenza con Pedro Páramo è che nel libro di Lee Masters non c’è possibilità di equivoco: sono tutti morti, la cesura tra noi che siamo e loro che sono tutti già stati ci pone in qualche modo al di qua di un immaginario parapetto, ci differenzia e ci rassicura. Tanto più che le relazioni tra i personaggi, quando ci sono, sono staticamente presentate nel momento in cui sono già finite e seppellite.
Juan Rulfo no: vuole qualcosa di diverso. Vuole farci mettere un piede fuori dal parapetto, perché solo così i suoi personaggi ci potranno arrivare, e potremo comprendere ciò che sono: archetipi che conosciamo bene, e di cui anche noi partecipiamo – anche se non siamo mai stati in Messico e di Pancho Villa abbiamo letto al massimo in qualche fumetto.
Di tutte le critiche che vennero mosse a questo libro, quella che lo indispettì di più e che fu più persistente fu proprio quella indirizzata alla assenza di una struttura. Qualcuno ipotizzò che Rulfo avesse scritto cronologicamente la sua storia, l’avesse tagliata in scene, avesse gettato in aria tutti i fogli in cui la storia era stata scritta e l’avesse trascritta di seguito così come era caduta sul pavimento.
Non si può ignorare che parte della fascinazione che Pedro Páramo esercita sul lettore arriva, però, proprio da questo andamento labirintico: e qui sta la seconda differenza rispetto ad esperienze come quelle dell’Antologia di Spoon River. Camminare tra voci che frantumano il tempo ma mantengono la memoria degli avvenimenti lasciando la loro narrazione sospesa costringe chi legge a tentare di completare dentro di sé la narrazione: in Pedro Páramo la gerarchia della luce, come quella del palazzo di Cnosso, è una struttura nascosta che risponde a una logica convergente. Juan Rulfo spinge il suo lettore verso l’ombra e la perdizione, salvo tirare i fili appena prima dello sfaldamento: potrebbe risolversi tutto in una gran confusione, e invece di stanza in stanza, di rovina in rovina, di voce in voce si capisce che la luce c’è, che stanze, rovine e voci resistono nella memoria di quella. E la luce è Paramo: una luce cattiva che guida governa piega tutti, polverizza la città di Comala e segna la sua distruzione.
In assenza di corridoi, la contiguità esige una ricerca diversa di legami e leganti.
Proprio come negli scavi, se di un sistema si può parlare per descrivere la struttura di Pedro Páramo, questo è quello dell’affioramento: inciampiamo nella penombra in un particolare, nell’inizio di una storia, in un angolo. E cominciamo a tirare, a scavare intorno. Quello che succede è che noi capiamo mano a mano che scendiamo, e ci lasciamo diventare parte della stratigrafia.
Voci
Ogni sospiro è come un sorso di vita che se ne va
Quanti sono i nuclei narrativi di questa storia? Due, quelli portanti. Più tutti i satelliti che si diramano per gemmazione.
All’inizio, Juan Rulfo ci tira dentro una vicenda di riscatto e vendetta: una madre sul letto di morte chiede al figlio di andare alla ricerca del padre che li ha abbandonati (“Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e non mi diede mai… fagli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati”). Un inizio classico e già di suo epico.
Juan Preciado (così si chiama il figlio, voce narrante della vicenda) temporeggia; poi dopo sette giorni, ossessionato dal ricordo della promessa, parte per la sperduta Comala in compagnia di un paesaggio tutt’altro che confortante. Incontra un tale Abundio, con cui ha una conversazione sconnessa, un mulattiere gioviale quanto Caronte, che lo porta sulla strada giusta (giusta davvero?) e poi scompare nel polverone non senza rivelargli un paio di cosette: la prima è che anche lui è figlio dello stesso padre (notare: nessuna reazione da parte di Preciado); la seconda è che il padre (di entrambi, a questo punto) è morto da molto tempo.
Juan arriva a Comala e cerca ospitalità per la notte, su consiglio di Abundio, nella casa di Eduviges Dyada; anche in questo caso le rivelazioni sono due: la donna gli dice di essere stata avvisata del suo arrivo da sua madre (che però è morta) e in più gli racconta di esserne stata un’intima amica (ma Juan non ne ha mai sentito parlare). Eduviges è una sorta di Cassandra: sente ciò che non si vede, premonisce ciò che sarà (“…è il mio sesto senso. Un dono che Dio mi ha dato; o forse una maledizione. Solo io so quel che ho sofferto per questo”), decide lei quando farsi vedere – e poi sfuma per le stanze.
Preciado comincia a capire che c’è qualcosa di strano nella cittadina, ma non fa in tempo a elaborare il pensiero che viene visitato da un’altra donna, Damiana Cisneros, altra amica della madre. Se donna Eduviges lo aveva inquietato, questa, passeggiando insieme a lui per le vie deserte, gli scoperchia sotto il naso il motivo dell’angoscia: “Questo paese è pieno di echi – dice – Ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini, senti che ti calpestano i passi”. Sul più bello, appena Juan rivolge una domanda diretta a Damiana, che razionalmente rivela la contraddizione nella quale la conversazione con la donna è caduta, Preciado si ritrova solo. La sua ospite è, semplicemente, evaporata.
A questo punto siamo autorizzati, proprio come il nostro narratore, a dubitare dell’esistenza di tutto ciò che vedremo a Comala, da ora in poi: è qui che Rulfo compie il rovesciamento finale, facendoci precipitare in una unica zona grigia. Cosa è vivo, cosa no, cosa forse: tutto finisce dentro lo stesso, allucinato, dubbio (e mi fermo prima di spoilerare).
Quanto al secondo nucleo narrativo, che agisce per interpolazione e contrappunto sull’altra vicenda, ruota tutto attorno alla stessa questione: chi è Pedro Páramo? Esattamente come uno specchio rotto, ma rimasto in sede nella sua cornice, la sua storia emerge per pezzi che, tutti insieme, concorrono a definirlo: ogni frammento è Pedro, circoscritto nel ricordo di chi lo evoca. Per il figlio bastardo e disconosciuto è “un rancore vivente”, per il sacerdote che non è riuscito a salvare la sua comunità dalle sue violenze è uno che “venne su come un’erbaccia”, per la donna che lo inganna la prima notte di nozze è il non padre del suo non figlio, per il curato della lontana Contla è uno di cui non si può neppure pronunciare il nome.
E siccome può tutto, Pedro Páramo sembra poter anche camminare attraverso il tempo: è subito un bambino, poi un giovane, poi un vecchio, poi di nuovo giovane, poi di nuovo adulto. Lui è il capo violento, il padrone che decide la vita e la morte dei suoi paesani, stupratore e padre di uno stupratore, menzognero e mercenario sulla pelle del suo popolo, omicida che ordina assoluzioni sull’altare, fraudolento e arrogante.
Se si dovesse scegliere in quale girone dantesco Pedro Páramo dovrebbe essere spedito, fatta eccezione per quello degli ignavi starebbe bene in tutti. Tanto più che, come una mala pianta, ha il potere di innescare i peggio istinti in tutti quelli che vengono a contatto con lui: la società di Comala è un assembramento di peccatori, dannati, infidi, traditori modellati in tutto e per tutto a stampo sul loro padre originario. E non importa che i nomi parlanti che Juan Rulfo sceglie per la sua storia siano talmente in chiaro da esibire fin da subito i modelli di riferimento (“preciado”, prezioso, è il figlio; Doloritas è la madre la cui vita è costellata di dolori; “páramo” è la brughiera, la terra desolata, e ha pure l’aggravante di quel “Pedro” che è pietra, dura e cruda). Il mondo di Rulfo è un mondo di vittime abbandonate da tutto, una mimesi di quello che accade all’antieroe fondatore; Pedro Páramo causa perdizione, ma è lui il primo ad avere perduto: un padre (ucciso da una pallottola di rimbalzo, e fonte di tutto il suo furore), un figlio (l’unico che abbia riconosciuto di tutti quelli avuti – e il più disgraziato), un amore (quello di Susana San Juan, che non riuscirà mai ad avere poiché, anche quando riuscirà ad ucciderle il padre e a tenerla sotto il suo tetto, sarà la pazzia a involargliela per sempre e a lasciarlo fuori di lei).
Catabasi
Questo mondo, che ci stringe da tutti i lati, che sparge manciate della nostra polvere qua e là, facendoci in pezzi come se spruzzasse la terra con il nostro sangue. Che abbiamo fatto? Perché ci si è marcita l’anima?
Un figlio cerca il padre. Il padre è morto – il padre era il male. Più il figlio conosce la memoria del padre, più apprende le dimensioni del male. Telemaco, questa volta, non avrà un buon compimento.
E’ una discesa, quella di Juan Preciado, attraverso dimensioni che si confondono: il luogo è arido, le anime sono aride, il tempo è arido – e la morte è una continuità tra alto e basso, sopra e sotto, dentro e fuori.
Nel frattempo, per tutto il libro, minimi spostamenti preparano i legami sotterranei della contiguità tra scene: ricordi (Doloritas contro Susana), racconti (Miguel contro Lucas), morti (Miguel contro Toribio) cementano tra di loro blocchi di frammenti e li giustappongono; stelle cadenti passano da una scena all’altra; pezzi di frasi riecheggiano dette da personaggi e in tempi diversi. E’ di questo che è fatta la struttura – quella che Rulfo difendeva – : di affioramenti successivi.
Su tutto, sospesi tra terra e cielo, gli uccelli: simbolici, cupi, misteriosi.
Corvi che gracchiano la prima volta che viene nominato Pedro Páramo; e poi correcaminos, tordi, zopilote, colibrì, tucani, zenzotle. Il cielo di Comala non è mai in pace: le stelle cadono, la luna è “sfigurata”, Juan Preciado dice di non essere riuscito nemmeno a vederlo.
Non è facile, da guardare in faccia, questa umanità di miseria, voci e fantasmi. Rulfo ne è cosciente («L’ho fatto difficile con questa intenzione, perché debba essere letto almeno tre volte» dichiara, nel 1977), e sfrutta tutti gli espedienti cinematografici possibili per inchiodare il suo lettore: chiude scene sul più bello, rallenta all’esasperazione certi gesti, ritorna più volte da angolature differenti sullo stesso istante.
Pedro Páramo è una storia umana (forse, da certi punti di vista, è la storia umana), ed è una storia di resistenza. Perché si può perdere tutto (l’amore, la legge, i figli, la famiglia, la terra, persino la vita), ma c’è una cosa che a tutto resiste: la necessità di raccontare. Persino da morti.
“Pedro Páramo” es una de las mejores novelas de las literaturas de lengua hispánica, y aun de la literatura.
(Jorge Luis Borges, “Prólogos con un prólogo de prólogos” Madrid, Alianza, 1998)
I frammenti in capo ai capitoli sono tratti dalla traduzione di Paolo Collo di Pedro Páramo, Einaudi 2004
(articolo apparso in Vibrisse – Bollettino di letture e scritture a cura di Giulio Mozzi, qui)